martedì 10 gennaio 2017

La dipendenza dall’alcool del coniuge giustifica l’addebito della separazione


Il protrarsi nel tempo dell'alcolismo, accompagnato al rifiuto di cure, costituisce, in base ad una presunzione confermata dall’esperienza medica e sociale, la causa dell'intollerabilità della convivenza per lo stress psicologico che la dipendenza dall'alcol provoca nelle persone conviventi, per la tendenza all'aggravamento dello stato di dipendenza e delle conseguenze sulla salute fisica e mentale, per il grave deterioramento delle relazioni personali, specie quelle più strette, che ne deriva.
a cura della Redazione Wolters Kluwer
A.M.M. ha chiesto che fosse dichiarata la separazione dal proprio marito, con addebito a quest'ultimo. Parte attrice ha chiesto, inoltre, l'affido condiviso del figlio (allora minorenne), con domiciliazione prevalente presso la madre e la condanna del M. a contribuire al suo mantenimento e a quello del figlio.
A fondamento della domanda di addebito A.M.M. ha affermato che la convivenza era divenuta intollerabile a causa della mancata contribuzione morale e materiale alla vita familiare da parte del marito, dedito all'abuso di bevande alcooliche.
Si è costituito in giudizio M.M., aderendo alla domanda di separazione ma opponendosi a quella di addebito e di riconoscimento di un assegno per il mantenimento della moglie.
Il Tribunale ha dichiarato la separazione dei coniugi; ha posto a carico del M. l'obbligo di versare al figlio la somma di € 200,00 a titolo di contributo per il suo mantenimento e a carico di entrambi i genitori in pari quota le spese straordinarie (quali le spese mediche, scolastiche, sportive); ha compensato le spese di lite nella misura di un terzo con carico della quota residua al M.
Il Tribunale ha respinto la domanda di addebito rilevando che l'abuso di bevande alcoliche da parte del M. era iniziato molti anni prima rispetto al ricorso per separazione e di conseguenza che tale condizione del M. non poteva costituire di per sé un presupposto sufficiente per attribuirgli l'addebito della separazione.
La Corte d'Appello ha accolto l'appello proposto dalla M. e, in parziale riforma della impugnata sentenza, ha dichiarato l'addebito della separazione al marito, ritenendo che l'abuso di bevande alcoliche da parte del M., seppur risalente nel tempo, non meritava di venir svalutato. Il fatto che la moglie, nonostante l'abuso di sostanze alcoliche da parte del marito, abbia atteso un considerevole lasso di tempo prima di presentare domanda di separazione non può privare tale patologia della sua valenza devastante sui rapporti coniugali. La Suprema Corte ha respinto il ricorso.
In particolare, i Giudici di legittimità hanno osservato che i motivi di ricorso si fondano sostanzialmente su una diversa configurazione della causa della intollerabilità per la M. della prosecuzione della relazione coniugale. Si tratta quindi di una valutazione che attiene al merito della controversia. Se per il Tribunale l'apparire dell'alcolismo avrebbe dovuto comportare una immediata reazione e/o una rottura del rapporto per potere essere considerato come la causa della separazione, per la Corte di appello, invece, è proprio il protrarsi nel tempo dell'alcolismo, accompagnato al rifiuto di cure, a costituire la causa dell'intollerabilità della convivenza per lo stress psicologico che la dipendenza dall'alcol provoca nelle persone conviventi, per la tendenza all'aggravamento dello stato di dipendenza e delle conseguenze sulla salute fisica e mentale, per il grave deterioramento delle relazioni personali, specie quelle più strette, che ne deriva.
Si tratta di una presunzione che trova la sua conferma nell'esperienza medica e sociale e che il ricorrente censura per il solo fatto di costituire una presunzione senza indicare quali fatti (che dovrebbero smentire tali circostanze gravi e ricorrenti) siano stati oggetto di mancato esame da parte della Corte di appello.
Il ricorso può pertanto ritenersi inammissibile e comunque infondato.
Esito del ricorso
Rigetto
Riferimenti normativi

venerdì 15 luglio 2016

È violazione di corrispondenza anche se la password di accesso alla mail è conosciuta

Violazione di corrispondenza

Si configura il reato di violazione della corrispondenza nella condotta di accesso ad una comunicazione e-mail indirizzata ad altri anche se la password di accesso alla casella di posta elettronica risulta nota per effetto di memorizzazione automatica del computer dal quale si accede alla casella predetta. Così stabilisce la sentenza n. 24 del 01.04. 2016 della Corte d’Appello di Taranto – Sezione Penale.

Nel caso in esame la in esame la Corte d’Appello di Taranto – Sezione Penale è stata investita della questione di valutare lasussistenza del reato di violazione della corrispondenza in una situazione in cui un soggetto, diverso dal destinatario di comunicazioni pervenute via e-mail, aveva potuto prendere cognizione ed utilizzare le stesse in quanto la password di accesso alla casella di posta elettronica era rimasta memorizzata automaticamente nel computer da cui la persona a cui la corrispondenza era indirizzata si era collegato in varie occasioni.
Il caso
Nell’ambito di una procedura giudiziale di separazione personale tra coniugi, la moglie produceva in giudizio della corrispondenza informatica destinata al proprio coniuge dopo che era già intervenuta la separazione di “fatto”.
In particolare, la donna aveva ottenuto le e-mail inviate all’indirizzo di posta elettronica del marito collegandosi alla sua casella con un computer che si trovava in suo possesso e che il coniuge aveva usato in diverse occasioni per accedere alla propria posta elettronica, terminale sul quale erano rimaste memorizzate automaticamente la password di accesso.
A fronte di ciò, il marito querelava la moglie per violazione di corrispondenza e questa veniva riconosciuta responsabile del reato ascrittole e condannata in primo grado dal Tribunale di Taranto – Sezione Penale.
L’appello
Avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto – Sezione Penale proponeva appello l’imputata, a mezzo del suo difensore di fiducia.
Con i motivi di gravame veniva contestata, innanzi tutto, la procedibilià dell’azione penale per essere stata proposta la querela tardivamente e da un soggetto non abilitato a ciò e, nel merito, veniva chiesta l’assoluzione.
La richiesta assolutoria si fondava sul fatto che, da un lato, l’imputata fosse in possesso della password di accesso alla casella di posta elettronica e, per tale motivo, fosse implicitamente autorizzata a prendere cognizione delle e-mail pervenute su detta casella, e, dall’altro, perché, in considerazione del fatto che le e-mail si visualizzavano automaticamente con l’accensione del computer, tale corrispondenza informatica non poteva essere considerata “chiusa”, condizione necessaria ad integrare la fattispecie di cui all’art. 616 c.p. che punisce esplicitamente la sola violazione di una corrispondenza “chiusa”.
Da ultimo, veniva altresì rilevato che comunque l’utilizzazione delle e-mail nel procedimento di separazione fosse scriminata perché tramite essa l’imputata faceva valere un proprio diritto in giudizio
La decisione della Corte d’Appello
La Corte d’Appello di Taranto – Sezione Penale respinge le doglianze dell’imputata, ritenendo l’appello del tutto infondato.
Sinteticamente, in merito all’aspetto della procedibilità dell’azione, viene evidenziato come la querela sia stata proposta entro i tre mesi dalla conoscenza del fatto, nonché dal difensore di fiducia espressamente delegato al deposito della stessa e, dunque, in maniera assolutamente conforme alla normativa penale.
Quanto poi alla circostanza che la produzione nel giudizio di separazione delle e-mail in esame potesse risultare giustificata in quanto esercizio di un proprio diritto, la Corte rilevava l’insussistenza di esigenze difensive a fondamento della produzione nel processo civile da parte dell’imputata, con la conseguenza che detta produzione risultava del tutto priva di giustificazione e, ovviamente, inidonea a produrre efficacia scriminante.
Ciò detto, maggiore attenzione ed interesse riveste la motivazione addotta dalla Corte d’Appello in ordine al merito della vicenda, ovvero circa la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie disciplinata dall’art. 616 del codice penale.
In primo luogo, la Corte adita sottolinea come, per le modalità di conoscenza della password di accesso alla casella di posta elettronica, non potesse logicamente dedursi una autorizzazione implicita della moglie ad accedere alle comunicazioni e-mail del marito.
Viene precisato come l’indirizzo mail sul quale erano state inviate le comunicazioni di posta elettronica fosse un indirizzo personale del marito e non comune dei coniugi.
Inoltre, la conoscenza della password dal parte dell’imputata non trovava la sua giustificazione nel fatto che il marito avesse volontariamente comunicato la chiave d’accesso alla moglie, bensì in virtù di un programma di memorizzazione automatica della password che era attivo sul computer e che aveva consentito all’imputata di accedere alla posta elettronica della persona offesa.
Invero, non era dunque corretto affermare che l’imputata fosse a conoscenza della chiave d’accesso alla casella di posta elettronica del marito, ma bensì che pur non avendo avuto comunicazione della stessa aveva avuto modo di superare quella protezione che avrebbe dovuto garantire la password in virtù di un sistema automatico di memorizzazione del computer utilizzato che le aveva comunque permesso l’accesso.
Pertanto, non vi era mai stata una condotta da cui potesse dedursi che il marito avesse autorizzato anche solo implicitamente la moglie ad accedere alla propria casella personale di posta elettronica ed il fatto che la moglie, viceversa, avesse sostanzialmente approfittato del sistema informatico in maniera tale da consentirle di poter prendere visione della posta elettronica altrui integrava appieno la fattispecie di violazione della corrispondenza.
In secondo luogo, nell’atto di appello veniva anche contestata la natura di “corrispondenza chiusa” delle e-mail in esame, sulla scorta del fatto che la casella di posta elettronica venisse aperta immediatamente all’accensione del computer, ma anche questa doglianza veniva ritenuta infondata dalla Corte d’Appello.
Infatti, veniva precisato come il fatto della apertura automatica della casella di posta elettronica non potesse in alcun modo giustificare l’accesso al contenuto dei singoli messaggi.
L’apertura delle singole mail operata dall’imputata nel caso di specie era, dunque, equivalente all’apertura di una busta chiusa e, come tale, era condotta idonea ad integrare la fattispecie di cui all’art. 616 c.p.
In sostanza, veniva evidenziato come la stringa in cui era indicato mittente, oggetto ed eventualmente l’incipit della comunicazione che compare nella così detta home page della casella di posta elettronica era del tutto equiparabile ad una busta chiusa di corrispondenza ordinaria, giacché per accedere al completo contenuto della e-mail era stato necessario aprire la mail medesima in una finestra che ne consentisse di visualizzare il contenuto stesso.
In conclusione, la Corte d’Appello di Taranto afferma che la conoscenza della password di una casella di posta elettronica non può valere di per sé solo come autorizzazione implicita ad accedere alla casella stessa, escludendo anzi che una simile autorizzazione possa ritenersi sussistere ove tale conoscenza non derivi da una condivisione esplicita di tale dato ad opera dell’avente diritto, e che la mail che compare sulla home page della casella di posta elettronica ha pienamente valore di corrispondenza “chiusa” in quanto per accedere al suo contenuto è necessario aprire una finestra di visualizzazione, alla stregua di come per accedere al contenuto di una corrispondenza “chiusa” è necessario aprire la busta ed estrarre la lettera in essa contenuta.

Fonte: di Michele Galasso - quotidiano giuridico

venerdì 6 maggio 2016

Se la cartella Equitalia è illegittima si ha diritto al risarcimento




Opposizione all'esecuzione
06/05/2016
Se la cartella Equitalia è illegittima si ha diritto al risarcimento
Nel giudizio di opposizione all'esecuzione, promosso avverso una cartella di pagamento, emessa a seguito di mancato versamento di una sanzione amministrativa, sulla base della non titolarità dell'autoveicolo all'epoca dell'accertamento della violazione, il Giudice di Pace di Taranto (con Sent. 30 marzo 2016), se accerta l'erroneità del provvedimento emesso, è tenuto a pronunciarsi in ordine al risarcimento dei danni richiesti, nonché alle spese di lite, avendo il cittadino subito una lesione dei propri diritti.
di Piera Pellegrinelli - Professore a contratto di Diritto dell'arbitrato nell'Università degli Studi di Bergamo
Il caso
Il Giudice di Pace di Taranto è stato chiamato a pronunciarsi in ordine all'impugnazione di una cartella esattoriale.
Si tratta di un giudizio riassunto, atteso che l'opponente aveva previamente instaurato, sempre avanti al Giudice di Pace di Taranto, la controversia ottenendo -a quanto è dato a capire dal testo della pronuncia- un provvedimento a lui sfavorevole, successivamente riformato dal tribunale di Taranto, quale giudice di seconde cure.
Il giudice adito nel presente giudizio concorda con le conclusioni rassegnate nella sentenza del tribunale di Taranto, evidenziando l'ulteriore disagio subito dall'opponente, a fronte di una controversia di facile soluzione, sulla scorta della documentazione versata nel precedente giudizio svoltosi avanti al Giudice di Pace di Taranto.
La controversia concerne l'opposizione all'esecuzione, ai sensi dell'art. 615 c.p.c., promossa avverso la cartella di pagamento n. 106 2011 000 7577165001, dell'importo di euro 2.142,03=, emessa a seguito del mancato versamento della sanzione amministrativa di cui al verbale elevato in data 2 novembre 2009 n. VE70/6204214.
L'opponente chiedeva la dichiarazione di nullità della predetta cartella di pagamento, previa sospensione dell'efficacia esecutiva della stessa, con vittoria di spese. A fondamento della propria richiesta, l'opponente deduceva il difetto di titolarità dell'autoveicolo alla data della violazione, 2 novembre 2009, essendo quest'ultimo di proprietà di un certo P. Giovanni. L'opponente si riteneva estraneo alla violazione contestata e formulava richiesta di risarcimento dei danni subiti.
Si costituivano in giudizio, da un lato, l'agente di riscossione, che impugnava e contestava integralmente l'atto introduttivo del giudizio chiedendo di respingere ogni domanda formulata dall'istante; dall'altro, la Prefettura di Taranto, la quale esibiva copia del verbale notificato al P. Giovanni, quale trasgressore. La Prefettura riconosceva, in pratica, la fondatezza dell'argomentazione svolta dall'opponente.
All'udienza del 6 ottobre 2014, l'Avvocatura di Stato di Lecce faceva pervenire una nota nella quale comunicava lo sgravio in corso a favore dell'opponente.
Il giudizio proseguiva al fine di valutare la richiesta formulata dall'opponente, volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Le parti precisavano le conclusioni e discutevano la causa all'udienza del 10 dicembre 2015. Il Giudice di Pace, non ritenendo necessaria alcuna istruttoria, tratteneva la causa in decisione.
La decisione del Tribunale
Con Sent. 30 marzo 2016, il Giudice di Pace di Taranto accoglieva l'opposizione all'esecuzione, promossa avverso la cartella di pagamento, condannando la Prefettura di Taranto al risarcimento dei danni, nonché al pagamento delle spese di lite.
In via preliminare, il Giudice adito faceva proprie le conclusioni rassegnate dal Tribunale di Taranto, adito quale giudice d'appello a seguito della pronuncia della sentenza del Giudice di Pace di Taranto.
Al fine di individuare il soggetto nei cui confronti deve essere notificato l'atto di opposizione ex art. 615 c.p.c., avverso la cartella di pagamento, occorre riferirsi a due disposizioni: l'art. 11R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 e l'art. 7,D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150.
Il R.D. n. 1611 del 1933 è rubricato "Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato".
A mente dell'art. 11 del provvedimento citato, "le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del Ministro competente. [...] Le notificazioni di cui ai comma precedenti devono essere fatte presso la competente Avvocatura dello Stato a pena di nullità da pronunciarsi anche d'ufficio".
Il D.Lgs. n. 150 del 2011 è rubricato "Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69".
Secondo l'art. 7, comma 5, del provvedimento citato, "la legittimazione passiva spetta al prefetto, quando le violazioni opposte sono state accertate da funzionari, ufficiali e agenti dello Stato, nonché da funzionari e agenti delle Ferrovie dello Stato, delle ferrovie e tranvie in concessione e dell'ANAS spetta a regioni, province e comuni, quando le violazioni sono state accertate da funzionari, ufficiali e agenti, rispettivamente, delle regioni, delle province e dei comuni"; il successivo comma 8 prevede che "nel giudizio di primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente. L'amministrazione resistente può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati".
Le disposizioni normative sopra citate indicano chiaramente che i ricorsi, e qualsiasi atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa (così: Cons. di Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 237).
L'amministrazione, secondo una sua valutazione, può avvalersi di propri funzionari, ovvero essere assistita dalla difesa dell'Avvocatura dello Stato. Rileva correttamente il Giudice di Pace adito che la scelta di utilizzare propri funzionari risponde ad un'esigenza di economia processuale; per contro, la difesa dell'Avvocatura dello Stato sarà opportuna in casi che presentino particolari difficoltà processuali.
Il caso analizzato è, dal punto di vista fattuale, semplice atteso che già all'udienza del 6 aprile 2014 la Prefettura di Taranto, tramite l'Avvocatura di Stato, esibiva copia del verbale notificato a P. Giovanni, in qualità di trasgressore. Tale dichiarazione confermava la tesi sostenuta dall'opponente: all'epoca della contravvenzione -ovvero il 2 novembre 2009- questi non era il proprietario del veicolo, pertanto la cartella di pagamento era stata erroneamente emessa. L'opponente risultava così estraneo da qualsiasi responsabilità relativa alla violazione di cui al verbale di pagamento, posto a base dell'emissione della cartella esattoriale.
La pronuncia è di particolare interesse perché riconosce all'opponente la possibilità di ottenere nei confronti della Prefettura di Taranto soccombente, oltre alla condanna alle spese processuali, il risarcimento dei danni subiti.
Il capo della sentenza che condanna la Prefettura di Taranto al pagamento delle spese processuali discende dalla sua soccombenza nel merito. Sulla scorta dell'art. 91 c.p.c. "il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa". Come noto, la parte soccombente del giudizio è tenuta a rimborsare le spese di lite a favore dell'altra parte. L'art. 92 c.p.c. prevede la possibilità per il Giudice adito di compensare le spese processuali. Nel caso di specie trova applicazione l'art. 92, comma 2, c.p.c. nella previgente formulazione, a mente della quale "se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti". È possibile la compensazione delle spese, oltre alla fattispecie della soccombenza reciproca, allorquando concorrono gravi ed eccezionali ragioni.
Il Giudice di Pace adito esclude che nel caso di specie possa farsi luogo alla compensazione delle spese legali, la quale non può trovare applicazione neppure considerando che la parte avrebbe potuto difendersi personalmente in giudizio, senza l'ausilio di un difensore. Il cittadino, invero, nel farsi assistere da un professionista, ha esercitato dei diritti espressamente attribuitigli dall'ordinamento giuridico e garantiti dalla Carta costituzionale. Occorre, altresì, considerare la sua inesperienza, non solo con riferimento alle norme sostanziali e processuali, ma anche con riguardo agli uffici ed alle loro prassi (Cass., 19 novembre 2007, n. 23993).
Il potere di compensazione delle spese processuali può ritenersi legittimamente esercitato da parte del giudice in quanto risulti affermata e giustificata, in sentenza, la sussistenza dei presupposti cui esso è subordinato, sicché, come il mancato esercizio di tale potere non richiede alcuna motivazione, così il suo esercizio, per non risolversi in mero arbitrio, deve essere necessariamente motivato, nel senso che le ragioni in base alle quali il Giudice abbia accertato e valutato la sussistenza dei presupposti di legge devono emergere, se non da una motivazione esplicitamente "specifica", quanto meno da quella complessivamente adottata a fondamento dell'intera pronuncia, cui la decisione di compensazione delle spese accede, onde la mancanza assoluta di motivazione, implicita od esplicita, della decisione di compensazione delle spese integra gli estremi della violazione di legge, denunciabile e sindacabile anche in sede di legittimità (Cass., 25 gennaio 2006, n. 1422Cass., 15 marzo 2006, n. 5783).
Giova osservare che l'art. 92, comma 2, c.p.c. è stato recentemente modificato dall'art. 13D.L. n. 132 del 2014, convertito con modificazioni in L. n. 162 del 2014. La formulazione attuale della norma consente la facoltà di compensare le spese legali al ricorrere di ipotesi tassative, ovvero nel caso di:
  • (i) soccombenza reciproca;
  • (ii) assoluta novità della questione trattata;
  • (iii) mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
La norma circoscrive il potere discrezionale del giudice che, con l'espressione "gravi ed eccezionali ragioni", aveva contenuti più ampi.
La condanna della Prefettura di Taranto al pagamento delle spese legali si giustifica alla luce del comportamento della pubblica amministrazione la quale deve agire con la normale diligenza e deve provvedere in autotutela alla cancellazione dei provvedimenti erroneamente emessi.
Si tenga altresì in considerazione che, come noto, il giudizio promosso dall'opponente ha comportato l'obbligo del pagamento del contributo unificato.
Il capo della sentenza relativo alla condanna della Prefettura di Taranto al pagamento della somma di euro 500,00 a titolo risarcimento dei danni, pur essendo condivisibile nel merito, merita di essere censurato nella parte in cui non risulta provvisto di idonea motivazione. Dalla lettura della sentenza non è dato a capire in base a quale ragionamento il Giudice sia pervenuto a quantificare in euro 500,00 l'importo del risarcimento del danno. Anche in punto an sarebbe stato preferibile argomentare compiutamente le motivazioni che fondano l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno.
L'art. 111 Cost. stabilisce che "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati". A sua volta, l'art. 132 c.p.c.esige che la sentenza contenga "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione". L'obbligo della motivazione assicura, in concreto, il perseguimento di diversi principi costituzionali, quali: il diritto di difesa, l'indipendenza del giudice e la sua soggezione alla legge, nonché il principio di legalità.
Ai sensi dell'art. 118, comma 1, disp.att.c.p.c., la motivazione della sentenza consiste "nella concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi". In essa "debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. Nel caso previsto nell'articolo 114 del codice debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata le decisione".
La violazione dell'obbligo di motivazione determina l'invalidità del provvedimento giurisdizionale e può essere fatta valere attraverso il sistema delle impugnazioni.
Esito del giudizio:
Annullamento della cartella di pagamento impugnata; condanna della Prefettura al risarcimento dei danni; condanna della Prefettura al pagamento delle spese di lite, così come liquidate in sentenza.
Giudice di Pace di Taranto, 30 marzo 2016, n. 1089 - fonte: Il quotidiano giuridico

domenica 31 gennaio 2016

Il Tribunale di Bologna torna sul tema dell'immediata operatività del divieto di anatocismo

Anatocismo
29/01/2016

Il Tribunale di Bologna, con Ord. 7 dicembre 2015, ponendosi in motivato dissenso rispetto alla giurisprudenza maggioritaria, ritiene che il divieto di anatocismo risultante dal nuovo testo dell'art. 120 T.U.B. possa dirsi operativo solo a seguito (e nei limiti che verranno tracciati) dall'emananda delibera del CICR.
di Luigi Dentis - Avvocato in Torino e Vice Procuratore Onorario presso la procura della Repubblica di Cuneo
Premessa
Il provvedimento in esame si inserisce nel dibattito innescato dalla nuova formulazione dell'art. 120 T.U.B. così come riformulato a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 629L. 27 dicembre 2013, n. 147.
L'intento dichiarato del Legislatore, nel porre in essere il richiamato intervento normativo, era quello di vietare la pratica anatocistica, sennonché, in concreto, la terminologia utilizzata ha lasciato spazio ad interpretazioni discordanti, come peraltro testimonia il provvedimento in commento.
L'art. 120 T.U.B., infatti, al comma secondo così dispone: "...il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale..."
Il provvedimento in esame offre un interessante lettura della norma, ma per la complessità delle questioni trattate occorrerà affrontare separatamente le tematiche proposte previo un sintetico inquadramento delle questioni in fatto a monte del ricorso introduttivo.
Il caso di specie
L'ordinanza in commento conclude il giudizio instaurato da una nota Associazione di consumatori che aveva dapprima contestato ad un altrettanto noto Istituto bancario di avere perseverato nel mantenere all'interno della documentazione informativa destinata ai clienti la previsione di interessi anatocistici.
L'Associazione aveva poi rilevato che a seguito di tale contestazione la Banca si era limitata a modificare solo formalmente le clausole contrattuali in contestazione mediante l'indicazione di un regime transitorio nel quale, in attesa dell'adozione della delibera CICR richiamata nell'art. 120 T.U.B., avrebbe comunque proceduto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi (passivi e attivi) secondo i criteri dettati dal CICR stesso nell'anno 2000 e (a detta dell'Istituto ancora in vigore).
Su questi presupposti l'Associazione aveva depositato presso il Tribunale di Bologna un ricorso ai sensi dell'art. 139 del Codice del Consumo con il quale chiedeva un provvedimento che inibisse alla Banca di continuare nella prassi della capitalizzazione degli interessi passivi.
Costituitasi in giudizio la Banca, per contro, aveva contestato le tesi dell'Associazione in particolare osservando che l'art. 120T.U.B. non poteva essere applicato immediatamente in assenza del prescritto intervento del CICR.
Il nuovo testo dell'art. 120 T.U.B. e la sua immediata applicabilità in attesa dell'intervento del CICR
Il Tribunale di Bologna, ponendosi su una linea interpretativa minoritaria in giurisprudenza, ha rigettato il ricorso svolgendo alcune interessanti riflessioni che si proverà a sintetizzare.
È noto, infatti, che una nutrita ed autorevole parte della giurisprudenza di merito ha interpretato l'art. 120 T.U.B. chiarendone l'immediata portata precettiva anche in assenza dell'intervento del CICR (V. Trib. Milano, 25 marzo 20153 aprile 2015 e 1 luglio 2015, Trib. Cuneo 29 giugno 2015 e Trib. Biella 7 luglio 2015, Tribunale di Roma 20 ottobre 2015). Ed in tal senso sembrano militare anche alcuni spunti offerti dalla Suprema Corte che pure non si è ancora pronunciata sulla questione (v.Cass. Civ., 6 maggio 2015, n. 9127).
Per converso va ricordato che esiste una significativa giurisprudenza che, pur minoritaria, ha invece abbracciato la conclusione opposta pur con motivazioni variegate (v. Trib. di Torino, 16 giugno 2015; Trib. di Parma, 30 luglio 2015 e Trib. di Siena 4 agosto 2015).
A fronte di questa contrapposizione è condivisibile l'assunto del Giudice bolognese per il quale il comune denominatore delle pronunce citate (siano esse favorevoli all'immediata applicabilità del divieto di anatocismo o contrarie) è il rilievo per il quale la formulazione adottata dal Legislatore nel riformare l'art. 120 T.U.B. è se non altro infelice.
La previsione, infatti, per la quale gli interessi "periodicamente capitalizzati" non possano produrre ulteriori interessi (che appunto andranno calcolati solo sulla sorte capitale) ha lasciato spazio al dubbio che la norma consenta invece se non altro una prima operazione di capitalizzazione.
E questo aspetto è stato sottolineato in modo chiaro e lineare nel provvedimento in commento.
La Giurisprudenza (si ribadisce, maggioritaria) che ha optato per l'immediata operatività del divieto di anatocismo ha ricavato tale principio sostenendo che la differente terminologia utilizzata alla lettera a) ("conteggio") ed alla lettera b) ("capitalizzazione") sia il portato di una terminologia atecnica tale per cui anche il termine "capitalizzazione" doveva essere inteso quale mero conteggio.
Il Tribunale di Bologna, pur sottolineando l'"ineludibile ambiguità della riformulazione legislativa" ha invece aderito ad una differente lettura della norma stabilendo che l'applicazione di un divieto di anatocismo presuppone comunque l'adozione della prescritta delibera CICR e ciò per le seguenti ragioni:
a) in primo luogo è lo stesso art. 120 T.U.B. a rimandare alla delibera CICR le modalità per la produzione di interessi di tal guisa che l'iter legislativo non potrebbe dirsi perfezionato se non all'atto dell'emanazione della normativa secondaria
b) questa scelta del legislatore sarebbe funzionale applicazione uniforme dei principi stabiliti dalla disciplina generale ad una
c) lasciare ai singoli Istituti di credito il compito di colmare la vacatio adottando in proprio misure per l'applicazione delle disciplina generale comporterebbe il rischio di dare vita a rilevanti disparità di trattamento attesa la "...pluralità di soluzioni ipotizzabili in punto... perimetro di applicazione del divieto nonché periodicità del conteggio e tempo di pagamento degli interessi..."
d) il divieto di anatocismo introdotto dal legislatore è comunque un divieto "regolamentato" ed a ciò è funzionale la delibera del CICR
Chi scrive non condivide in pieno le ragioni poste alla base della decisione in commento ma ritiene doveroso sottolineare come il Tribunale di Bologna abbia posto bene in luce i problemi interpretativi generati da una disciplina che oggettivamente si presta a letture differenti proprio in ragione della terminologia tecnica utilizzata dal Legislatore.
Ed è proprio in una materia come quella bancaria, ormai generatrice di un ampio contenzioso tra Banche e consumatori, che non ci si può più permettere una disciplina oscura e contorta se si vuole restituire al sistema bancario un perimetro certo entro il quale operare ed alla platea dei consumatori diritti agevolmente tutelabili.

Tratto da Il Quotidiano Giuridico

giovedì 29 ottobre 2015

Si può usare il Gps per controllare il lavoratore

È legittimo il licenziamento disciplinare irrogato al dipendente allontanatosi dalla sede di lavoro in orario lavorativo fondato sui rilievi del Gps installato sull’auto aziendale in dotazione al lavoratore. Per la Corte, l’utilizzo di tale sistema è lecito perché rientra nei cosiddetti “controlli difensivi”, ovvero quelli intesi a «rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa, nonché illeciti». Corte di cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza 12 ottobre 2015 n. 20440

martedì 27 ottobre 2015

LA CASSAZIONE INTERVIENE SULLA COLTIVAZIONE DI MARIJUANA

La coltivazione modesta resta offensiva ma può essere non punibile se il fatto è considerato lieve

La condotta di coltivazione di piante da stupefacente può essere ritenuta inoffensiva soltanto ove la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Peraltro, a fronte di fatti di minore gravità, pur se offensivi, la condotta può essere inquadrata nell’ipotesi di reato autonomo di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990, ovvero, ricorrendo le condizioni di legge, può essere dichiarata non punibile ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp.
La Suprema Corte di Cassazione torna ancora una volta sul controverso tema del trattamento sanzionatorio da riservare alla condotta di coltivazione di piante da stupefacente, allorquando il prodotto della coltivazione, destinato solo all’uso personale del coltivatore, risulti assolutamente modesto quanto a percentuale di principio attivo.
La sentenza recepisce l’impostazione di rigore già seguita dalle sezioni Unite e dalla giurisprudenza prevalente, che qualifica tale condotta come in ogni caso penalmente rilevante, potendosi addivenire a una pronuncia liberatoria, per l’inoffensività in concreto dell’attività, solo allorquando il prodotto della coltivazione risulti totalmente privo di effetto stupefacente, mentre sarebbe senz’altro punibile e non inoffensiva la condotta che consentisse di produrre un qualche principio attivo stupefacente, anche minimale.
Vengono, per l’effetto, richiuse quelle “aperture” rinvenibili in alcune pronunce di legittimità, laddove, approfondendosi il tema degli interessi tutelati dalla disciplina delle sostanze stupefacenti, si era inteso in senso più estensivo il concetto di offensività della condotta, pervenendo o ratificando una pronuncia liberatoria relativamente a condotte di coltivazione di poche piantine, destinate ovviamente all’uso personale, in grado di produrre stupefacente avente solo un qualche, modesto, effetto drogante.
La decisione, peraltro, pur nella rilevata prospettiva di chiusura, si fa apprezzare perché, a fronte di queste ipotesi, qualificate da una modestissima quantità di principio attivo stupefacente, nel ribadirne la rilevanza penale, perché comunque ritenute offensive, sottolinea la possibilità di inquadrarle, in quanto fatti di minore gravità, nell’ipotesi di reato autonomo di cui al comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, ovvero, addirittura, in presenza delle condizioni di legge, di dichiararle non punibili per la ricorrenza del fatto di particolare tenuità ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp.
Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 luglio-22 settembre 2015 n. 38364

lunedì 5 ottobre 2015

Le relazioni contano più del Dna

Il rapporto familiare di fatto prevale sulla biologia e il riconoscimento del figlio da parte di chi sa di non esserne il padre naturale può avere effetti irreversibili anche ai fini ereditari. Questo emerge dall’ordinanza del Tribunale di Firenze del 30 luglio 2015 su un ricorso con il quale due eredi chiedevano in via di urgenza la riesumazione della salma del de cuius per effettuare la prova del Dna da utilizzare ai fini del disconoscimento di paternità di un’altra erede.

Un uomo aveva riconosciuto come propria figlia naturale una bambina che poi aveva vissuto con lui. Successivamente l’uomo aveva contratto matrimonio e aveva avuto un altro figlio.
La figlia riconosciuta prima delle nozze aveva convissuto con il padre e il suo nuovo nucleo familiare per più di 15 anni.
Emergeva nel giudizio che l’uomo era stato sempre consapevole di non essere il padre biologico della figlia che pure aveva riconosciuto come propria; nonostante ciò, egli aveva voluto sempre mantenere la condizione di genitore sia sul piano formale sia sul piano fattuale fino alla sua morte.
Trascorsi circa 14 anni dalla scomparsa dell’uomo, la moglie e il figlio nato dal matrimonio avevano proposto ricorso in via d’urgenza contro l’altra figlia, chiedendo che fosse disposto accertamento tecnico preventivo per verificare la non corrispondenza del Dna delle spoglie mortali del loro congiunto con quello dell’asserita figlia, riconosciuta come naturale, e per poter conseguentemente proporre azione di disconoscimento della paternità per difetto di veridicità.
Il Tribunale di Firenze ha ritenuto con una pronuncia innovativa che tale azione non fosse ammissibile rispetto al riconoscimento compiuto con la consapevolezza della falsità.
Già questo principio era stato affermato dal Tribunale di Civitavecchia con una pronuncia del 19 febbraio 2008 con riguardo al disconoscimento proposto dal soggetto che aveva prima riconosciuto il figlio, consapevole dell’insussistenza di legami biologici.
Ora il giudice fiorentino lo ha esteso anche ai terzi interessati. Ed ha evidenziato che un tale riconoscimento assume la valenza di un atto determinativo di status che appare irretrattabile non solo da chi lo ha effettuato ma anche dai terzi che si troverebbero ad esercitare un diritto sostanzialmente potestativo per eliminare uno status voluto dal soggetto riconoscente e vissuto come parte integrante della propria identità personale dal soggetto riconosciuto.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Firenze, la figlia riconosciuta ma non biologica del defunto aveva vissuto la condizione di figlia legittima complessivamente per circa 30 anni, inserita in un nucleo familiare del quale hanno fatto parte anche i terzi che richiedevano il disconoscimento.
L’azione proposta da chi ha convissuto con costei nell’ambito di una dimensione familiare, socialmente e affettivamente riconoscibile, contrasta con criteri di buona fede, solidarietà e reciproco affidamento.
La richiesta di disconoscimento, secondo il giudice toscano, risultava sostenuta da un interesse prevalentemente patrimoniale, legato alla gestione dei beni da cui era composto l’asse ereditario. Ma nella comparazione dei vari interessi il tribunale ha considerato prevalente quello di natura strettamente personale che attiene ai diritti della personalità rispetto a quello che discendeva dall’esigenza di comporre contrasti decisionali sulla manutenzione di beni in comunione ereditaria, evocati nel ricorso.
A fronte di questioni esclusivamente patrimoniali, del tutto sproporzionato e inaccettabile è apparso al giudice il sacrificio del diritto allo status e all’identità personale della convenuta, frutto di un atto di volontà consapevole e responsabile di un soggetto adulto.

di Giovanbattista Tona - Fonte: IL QUOTIDIANO DEL DIRITTO - IL SOLE 24 ORE